Il padre di Passerotto (nome fittizio)faceva il pastore, e abitava con la sua famiglia in un casolare presso Tuvoi, località che dista da Siliqua due chilometri circa. Passerotto era la terza di sei figli, aveva otto anni, e frequentava le scuole elementari di Via Mannu, nel centro di Siliqua.
Percorreva la strada a piedi, da sola, con la sua cartellina, col sole o con la pioggia. Ai piedi portava zoccoletti che andavano bene sia d’estate che d’inverno, non aveva cappotto né ombrellino per la pioggia, ma percorreva la strada canterellando o ripetendo la lezione che aveva studiato la sera innanzi. Nei mesi invernali camminava svelta per arrivare presto a scuola o a casa, ma quando arrivava la primavera, andava più lentamente, girando lo sguardo ai lati della strada ammirando le macchie di colore che avevano ricoperto la terra, fermandosi ogni tanto per cogliere un fiore, o per correre dietro ad una farfalla.
Le campagne di Siliqua non sono mai spoglie del tutto, già in gennaio (qualche volta in dicembre) i ciuffi di pratoline sembrano ignorare che è inverno pieno, e le prime calendule rallegrano la vista col loro giallo vivo. Poi è un susseguirsi di fioriture dai più svariati colori, dal rosso dei papaveri, al giallo oro dei ranuncoli. Quando lungo la strada incontrava una lunga fila di formiche intente a riempire le loro tane di semini, si fermava ad osservare, incuriosita dalla loro solerzia nel lavoro, e soprattutto da quello strano saluto che ogni formichina scambiava con ogni compagna che incontrava sul suo cammino.
Le formiche ormai non le incontrava più da qualche mese, l’aria si era fatta più fresca, e il suo passo era più veloce.
Quel giorno, uscita da scuola, aveva visto subito che il cielo grigio non prometteva nulla di buono, e aveva iniziato a camminare di buona lena. Girato l’angolo della scuola, si era trovata subito di fronte alla Parrocchia (la chiesa di San Giorgio Martire), si era segnata chinando il capo e aveva imboccato la via che sta a sinistra della chiesa, quella che alla fine si immette nella strada per Vallermosa. Arrivata in fondo alla discesa, davanti a sé, vide il cielo tutto nero. Allungò il passo, ma prima che arrivasse al cimitero, le prime grosse gocce portate da un forte vento, la fecero rabbrividire. Iniziò a correre per quanto il vento e gli zoccoletti le permettevano, il vento che non soffiava sempre nella medesima direzione, la spingeva, la spostava di lato, la rimandava indietro, sempre rovesciando sulla piccola catinelle d’acqua gelata.
Camminare con gli zoccoletti fradici d’acqua fu presto impossibile, poiché i piedini scivolavano rischiando di farla cadere, li tolse e con un unico gesto li raccolse con la mano destra aperta a V, mentre con l’altra stringeva la cartella alta sul capo. In quel tratto la strada era in piano, ai lati ciuffi di canne piegate in orizzontale toccavano terra girando attorno a se stesse spinte dalla furia del vento. Ma passerotto non le vedeva, la violenza dell’acqua e del vento era tale che le mozzava il respiro, non le permetteva di vedere la strada che era diventata un fiume d’acqua.
Avanzava a fatica, dalla posizione dei piedi capì di essere arrivata ai piedi della salita, dietro la quale a poca distanza stava la sua casa.
Camminava con la forza della disperazione, un po’ spinta in avanti un po’ ricacciata indietro, quasi sempre con gli occhi chiusi.
Chissà come, arrivò in cima alla salita, ma qui la forza del vento non le permise di continuare.
Solo la cortina d’acqua non le permetteva di vedere la sua casa, doveva farcela! Non poteva fermarsi proprio ora! Fu costretta a fermarsi, piantò con forza i piedini a terra, mise la cartella al petto e la cinse con le sue braccine fino a toccare i fianchi con le mani, e rimase così, per un tempo infinito, o così le parve. Poi di colpo, anche con gli occhi chiusi, vide tutto nero, e si sentì sollevata in aria da una forza sovrumana.
Il suo papà, che vegliava e conosceva l’ora del suo arrivo in quel punto della strada, appena scorse la sua figurina in cima alla salita, con lunghe falcate la raggiunse e toltosi la pelle di pecora che lo riparava, con un unico gesto la avvolse nella pelle e la sollevò, e sempre correndo, in breve raggiunse la casa. La depose fra le braccia della madre, che la spogliò dai panni bagnati, l’asciugò massaggiandole delicatamente la pelle, e la rivestì con panni asciutti.
A Passerotto rimase il dubbio, a casa, l’aveva portata suo padre, o un turbine di quella bufera?
Grazia Secci